lunedì 15 dicembre 2008

“Per saper morire bisogna aver saputo vincere.”


-->Non conoscevo Marco Pantani, il “Pirata”, ma conosco la depressione. La conosco bene, la conosco da quasi cinquanta anni, da quando, per la prima volta, ero ragazzo (avevo appena finito il liceo), ne fui vittima. Churchill, che ne soffrì per tutta la vita, la chiamava “il cane nero”, e mai definizione fu più azzeccata. Un “cane nero”, un mastino che ti s’insinua nei precordi e te ne sovverte i ritmi, ti penetra nelle viscere e te le macera, fino a ustionartele. Ti ghermisce quanto meno te lo aspetti, ma non ti affronta, come tanti altri mali, di petto: ti aggira, ti blandisce, ti circuisce. Diventa il tuo padrone, anzi il tuo tiranno e tu, se cadi nei suoi lacci, se non eludi le sue insidie, ne diventi l’ostaggio, lo zimbello, la vittima. Non ti dà tregua e, dopo averti stordito, assiste, impassibile e implacabile, alla tua agonia. T’instilla ancestrali sensi di colpa, ti paralizza gli arti, ti congela il pensiero. Si fa sadicamente gioco di te e, senza che tu te ne renda conto, ti trasforma in complice. Lo maledici, ma lo assecondi; gli volti le spalle per sottrarti ai suoi perfidi artigli, ai suoi subdoli tentacoli. Ma non ce la fai. Cerchi di cacciarlo, ma le forze ti mancano e quelle superstiti ti vengono meno. Irretito da una dannata fascinazione, lo insegui, poi torni sui tuoi passi e lui ti porta dove vuole e dove tu non vorresti andare. Ti ripieghi su te stesso, piangi, imprechi. I colori, prima si stemperano nel grigio, poi assumono tinte sempre più fosche, fino a quelle ferali del lutto. La depressione non è solo il più oscuro dei mali, ma, forse, anche il più antico. In nessun altro momento della vita, per quanto drammatico, ci sentiamo così indifesi, così disarmati, in balia di tutto e di nulla. Ci chiediamo perché, ma le nostre angosciose domande restano senza risposta, cadono nel vuoto. Stringiamo i denti, serriamo i pugni, tendiamo fino allo spasimo i muscoli della volontà: niente. E’ come se il mondo, il mondo intero, si fosse coalizzato contro di noi, quasi che volesse punirci per peccati non commessi, per colpe di cui mai ci siamo macchiati. All’alba, quando il sole sta per sorgere e la giornata per cominciare, il “cane nero” , schiumante di rabbia, sfodera i suoi incisivi e i suoi canini e ti sbrindella il ventre. Ti viene meno il respiro, la favella ti s’inceppa, e tu, con gli occhi persi, vorresti urlare, liberarti dall’orribile presa, lanciare l’estremo “S.o.s.” Ma non puoi, non ce la fai, e la mortificante impotenza ti fa desiderare la morte, la fine di tutto. Non importa a che prezzo; non importa se il più insano dei gesti costernerà chi ti ama e vorrebbe aiutarti. In questo marasma psichico, in questo assurdo sconcerto della mente, in questo offuscamento della ragione, segnato nel corpo e stremato nel fisico, invochi Atropo. Venga, la più funesta delle Parche, venga, si precipiti con le sue lugubri cesoie e spezzi senza esitazione e remissione il filo di un’esistenza diventata un calvario. Faccia il suo dovere di giustiziera, assolva il suo mesto compito, ponga l’estremo suggello a una vita piena di tormenti e senza più speranze. Non ci risparmi e non perda tempo. Vogliamo solo morire, e solo lei può appagarci. Non abbia pietà di noi: ci farebbe il più grave dei torti. Eppure, in tante tenebre, sepolti e soffocati nel tunnel della depressione, c’è un momento, fugace come un attimo, un flash della provvidenza, che pensavamo ci avesse dimenticato e anche irriso, c’è un momento in cui una scintilla improvvisa, un lampo fatale attraversa la nostra mente e la illumina. Lo percepiamo fuggevolmente, ma tanto basta a risvegliarci dall’ossessivo letargo, a rianimarci lo spirito. Ci rendiamo conto, per quanto accasciati e sconsolati, che non tutto è perduto, che qualche chance di riscossa ancora l’abbiamo, che la volontà, fiaccata dalle avversità, può ancora reagire ai suoi staffili. Ci accorgiamo che se molte risorse ci sono venute meno, altre, fin allora latenti, sono pronte a mobilitarsi per mettere in fuga il “cane nero”. A fatica ritroviamo noi stessi, la forza di lottare e l’orgoglio di vincere. Abbiamo sofferto e nessuna umiliazione ci è stata risparmiata. Ora basta. Ora passeremo all’attacco. Ora mostreremo anche noi le unghie, i denti, i muscoli. L’incubo è finito. Usciremo dal tunnel, rivedremo il cielo e riassaporeremo le gioie della vita. Marco Pantani questa forza, per fortuna non l’ha avuta e si è lasciato morire. Solo come un cane, divorato dal “cane nero”.(Roberto Gervaso)

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